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18 dicembre 2021

BUONE FESTE 2021

BUON NATALE 
BUONE SANTE FESTE
a tutti i lettori del blog

14 dicembre 2021

PAESE SUL PO

VEDUTA TARDO AUTUNNALE
CALENDASCO
 
Dall'argine del Po, a nord del borgo, ne vedi la sagoma antica: prima cosa su tutte il fatto che la chiesa, il castello e il ricetto appaiono "sopraelevati" sul monticello posticcio, innalzato da mano umana per abitare "a tutti i costi" qui accanto al fiume, che a volte si sparpagliava fin lì accanto. 
Non c'era motivo, gia 2000 anni fa con i romani e poi 700 anni dopo con i longobardi di non abitare in questa rigogliosa area: qui eran prati, pascoli, campi coltivi, boschi e vigneti ed anche tanta e importante acqua per irrigare.
Adesso alla vista rimane la grande distesa, coltiva e immensa, ormai disboscata completamente così come è sparita la viticoltura anche solo personale, diversamente invece di quello che è la bassa del Po parmigiana, dove la tradizione della "fortana" non molla.

foto-testo UB  -        se copii qualcosa cita da dove nasuppi


2 dicembre 2021

CALENDARIO DEL PO 2022

ECCO PER TUTTI
GLI AMICI DEL PO
il calendario del 2022

in una sola pagina in formato A3 e potete scaricarlo dal link che ho messo qui da wetransfer e poi farne una fotocopia a colori per poco et voilat il gioco è fatto (il link resta attivo da wt per 7 giorni)

voster umbe
 
clicca questo LINK e scarica e salva il calendario in 8mega per una buona riuscita della stampa
 

 

CALENDARIO SAN CORRADO 2022

AMICI DEVOTI DI SAN CORRADO

il Calendario 2022 in formato A3
potete scaricarlo dal LINK che ho messo è una IMMAGINE di 8mega
andate dove fan fotocopie a COLORI formato A3 e con circa solo un euro
avrete il Calendario del Patrono in una bella paginata

cliccate tranquillamente il LINK
e alla pagina che si apre cliccate SCARICA
viva S. Corrado, voster Umberto Battini Calendasco/Piacenza/Noto

 

 

30 novembre 2021

IL 30 NOVEMBRE 2021

IL PO
A CALENDASCO
TRA IL BOSCO E IL PORTO DEL MASERO
Alle due del pomeriggio
 
La sorprendente giornata limpida, fredda e di sole qui nella stupenda piana al ridosso del Grande Fiume
 
nel fotoservizio di Umberto Battini
(se copii le foto cita sito e autore)
 






 
 

23 novembre 2021

L'EPIDEMIA DEL 1973

IL MIO ARTICOLO SUL COLERA NEL 1973
E QUELLO CHE SUCCESSE A PIACENZA

 
oppure scorri la pagina e leggilo dal blog



L’EPIDEMIA DI COLERA DEL 1973

E GLI EFFETTI NELLA NOSTRA CITTA'

Nella foto dal web: Napoli 1973 si spruzza disinfettante e anche a Piacenza si agì così
 
 

Dopo quasi due anni vissuti tra covid19 e vaccinazioni ripercorriamo il tragico evento del 1973 e vediamo quello che la cronaca raccontò su come lo vissero i piacentini.

Sono passati quasi cinquant’anni dalla brutta epidemia colerica che toccò la Campania e tutto cominciò dai contagiati della città di Napoli (venne individuata la causa nelle cozze e si diede la colpa al fatto dei rifiuti mal raccolti sotto al sole cocente) e l’infettiva malattia si diffuse lievemente anche in Puglia e Sardegna, non poco fu il panico scatenato in tutta la penisola e Piacenza non fu da meno.

Nonostante il territorio piacentino restò immune, si scatenarono anche qui delle vere e proprie fobie tra la gente che crearono ripercussioni sul modo di vivere e anche, pensate un pò, sui consumi alimentari: ripercorriamo quell’evento e vediamo come fu vissuto a Piacenza.

L’epidemia durò poco meno di tre mesi (tra agosto e ottobre) e il vibrione colerico contagiò tanta gente e causò al sud quasi trecento morti: nelle aree compromesse vennero vaccinate con due dosi tutte le persone ma anche nel resto d’Italia (nord e centro) sebbene non obbligatoriamente, si ricorse alla vaccinazione preventiva contro il morbo colerico ma solo per alcune categorie di persone.

Ovviamente ogni epidemia e quindi anche il colera si combatte con una grande igiene e pulizia: a Piacenza il dibattito in quel settembre del 1973 fu politicamente molto acceso, l’epidemia di colera del sud Italia aveva dato modo di discutere di temi importanti anche qui e si parlò di maggior cura di servizi igenici pubblici, del fatto non irrilevante di alcune fognature la cui sporcizia a cielo aperto avrebbe potuto esser causa di infezioni e si trattò per l’ennesima volta del problema degli scarichi in Po non depurati.

Anche se all’ospedale di Piacenza non ci furono ricoveri sospetti, il sindaco cittadino in accordo con l’Ufficio sanitario vietò i bagni in Trebbia e a Po proprio per il fatto che vi defluivano scarichi fognari non depurati, oltre al divieto assoluto di vendere mitili, cozze e vongole (dai quali era partito il morbo e divieto tra l’altro entrato in vigore in tutta Italia). Su ordine del comune si mandarono squadre a disinfettare i magazzini ortofrutticoli, dove arrivavano camion carichi dal sud Italia e fu ordinata la disinfezione dei bagni pubblici, dei locali per la raccolta dei rifiuti di condomini e mense e con uno speciale grande spruzzatore caricato su di un camion si passò in alcune strade periferiche della città dove purtroppo qualcuno tendeva ad abbandonare immondizia prontamente rimossa.

A Piacenza non vennero giustamente risparmiate nemmeno le caserme, a quel tempo super affollate di militari essendo la leva obbligatoria e si fece un’ampia e continua opera di disinfezione; il vaccino purtroppo era scarso e qui ne arrivarono poche dosi utilizzate solo per medici, infermieri e personale sanitario e per coloro che avessero dovuto recarsi in aree del sud per motivi di lavoro, addirittura dal Comune si attivarono in modo autonomo e furono comprati vaccini direttamente in Svizzera. I piacentini vennero informati che comunque la vaccinazione “oltre a non esser obbligatoria neanche era consigliata a causa di effetti collaterali” come dichiarava il dottore dell’Ufficio sanitario di via San Marco, e si invitava la popolazione a seguire buone pratiche di igiene ma anche “di non farsi prendere dal panico in caso di mal di pancia ma è certo meglio cento controlli a vuoto che un solo caso trascurato” perchè la situazione in città e provincia era assolutamente sotto controllo e non destava nessun allarme: fatto sta che come leggiamo dai titoli di quei giorni, la psicosi da colera anche tra i piacentini si faceva sentire eccome e al pronto soccorso si presentavano tutti coloro che avevano anche solo lievi dolori al ventre.

Sempre con una ordinanza il sindaco di Piacenza (ma anche altrove gli altri sindaci locali) proibì dai menù dei ristoranti l’uso di tutte le verdure crude, quali ad esempio insalate e peperoni mentre erano ammesse quelle cotte e le massaie che disponevano di un orto sotto casa potevano farne uso anche a crudo dopo un energico lavaggio, e si potevano mangiare ad esempio pomodori dei nostri campi e uva nostrana dei nostri vigneti collinari. Intanto a Napoli, con decine di infetti, e nelle zone del sud colpite si iniziava a praticare la seconda dose di vaccino da fare entro un mese dalla prima e si sospendeva ovviamente la grande festa del 19 e 20 settembre dedicata a San Gennaro.

A Piacenza le pescherie, dato il divieto di vender molluschi, erano deserte ed in crisi, non veniva più consumato neanche il pesce d’acqua dolce escluso dal bando quale poteva essere quello nostrano di Trebbia e Po, mentre le vendite di limoni erano raddoppiate: infatti veniva consigliato tramite articoli di giornale e la televisione, dalle autorità mediche nazionali l’uso di bevande a base di succo di limone come “disinfettante” efficace ed i piacentini fecero fare “un’impennata alle vendite di agrumi” con conseguente forte aumento del prezzo, sui banchi del mercato e nelle botteghe di verdura c’erano montagne di limoni richiestissimi.

Finalmente il colera venne domato, da Napoli e dal Ministero della Sanità giungevano notizie confortanti, l’allarme era passato, e dopo oltre due buoni mesi a Piacenza e nella provincia venne ritirata l’ordinanza per il divieto di consumo di ortaggi e verdure crude nei pubblici esercizi e per magia: “ricompare l’insalata nei menù dei ristoranti anche se i clienti si erano ormai abituati alla verdura cotta” così come anche tutti gli altri divieti furono aboliti ma di certo ormai essendo l’inizio di novembre nessuno avrebbe mai pensato di far un tuffo nel fiume Trebbia o ancor meno in Po.

Questa la cronaca in sintesi di come venne vissuto quel tragico evento qui nel piacentino, dove per un breve tempo si consumavano solo morbide verdure lesse e dove si preferì servire quasi in ogni dove invece dello spumeggiante “scodellino” di vino gutturnio, una semplice e salutare spremuta di limoni, quasi una cosa da non credere.

Umberto Battini

 

13 novembre 2021

LA PIENA DEL PO DEL 1951

70 ANNI FA LA GRANDE ALLUVIONE
I DANNI MAGGIORI NEL POLESINE
MA ANCHE IL TERRITORIO PIACENTINO
VENNE MARTORIATO
 


SETTANT’ANNI FA
LA GRANDE PIENA DEL PO
ERA IL 1951 
 
il Po circonda Calendasco 1907 foto di repertorio

Nella memoria di tanti piacentini, ormai anziani, c’è anche il ricordo della grandissima piena del novembre del 1951 e che tanti danni causò ai luoghi rivieraschi e soprattutto nel Polesine dove il danno a persone, campi e case fu enorme.
Da Castel S. Giovanni passando per Sarmato, Calendasco, Piacenza, Mortizza e Gerbido e fino a Caorso e Monticelli d’Ongina lungo tutto il corso del fiume furono momenti di forte apprensione: le acque invasero terre golenali, comparvero tanti fontanazzi oltre argine, assai pericolosi, e la paura per le genti e le tante abitazioni e le tante fattorie agricole fu grande. 
 
Non pochi gli sfollati avuti anche nelle nostre terre rivierasche del Po: per il fatto che le acque avevano già invaso le abitazioni o per la paura concreta che l’argine potesse non contenere questa furiosa ed enorme massa d’acque andandosi a rompere in qualche punto, distruggesse ogni luogo abitato nei suoi pressi.
La piena più disastrosa prima di questa fu quella del maggio del 1926 dove il Grande Fiume raggiunse a Piacenza i 9,26 metri e data l’altezza non ancora imponente degli argini uno d’essi cedette, si allagò la “Muntà di Ratt” zona via Mazzini e addirittura anche gli Ospizi Vittorio Emanuele ed altre aree cittadine ed ovviamente anche i paesi e le località poste lungo il fiume quali maggiormente Mortizza e Calendasco e nella sponda lombarda a San Rocco al Porto fu rotto un argine con grave danno.

In quel 1951 tra il lunedì 12 e il 13 novembre il Po diede il colpo di grazia lungo il suo corso nella nostra provincia: l’altezza massima a Piacenza fu di m. 10,06 alle 4 del mattino e per un soffio non esondò: gli argini a quel tempo erano di circa m. 10,40 di altezza: alle nove della sera il Po era già a m. 9,72 e la crescita oraria di oltre 10 cm. non era promettente.
Lungo i circa 130 chilometri di argini della provincia furono impiegati 500 uomini tra militari ed operai e la fitta nebbia di quel novembre era un altro ostacolo non indifferente, dalla zona Finarda fino a Caorso ed oltre tanti sfollati e cascine allagate, a Mortizza si cercava di salvare il salvabile: sulle barche e sulle grandi magane si affollavano persone e cose, sulle strade carri con masserie e il bestimame portato in salvo.

Ugualmente al nord ovest a Calendasco varie località prossime al fiume furono evacuate in particolare a Soprarivo verso il Boscone Cusani dove gli allagamenti fuori argine furono notevoli a causa dei tanti fontanazzi, i militari e gli operai riuscirono verso la mezzanotte a chiudere un pericoloso grande fontanazzo a Boscone Cusani.
Anche il centro città a causa di un forte acquazzone subì notevoli disagi, con grandi allagamenti di cantine anche in Corso Vittorio Emanuele, via Scalabrini e altre vie, insomma oltre all’emergenza di piena anche il maltempo in generale causò devastanti disagi che non risparmiarono bene o male quasi nessuno.

Da Veratto di Rottofreno, dalla Barattiera oltre Santimento e Soprarivo con Calendasco caseggiati e fattorie in alcuni punti furono raggiunte dentro argine da due metri d’acqua, identica situazione a Roncarolo di Caorso ed a Zerbio ci furono almeno 150 sfollati.
Dentro all’argine a Roncarolo di Caorso furono tratte in salvo dopo importanti operazioni ben 32 persone rimaste imprigionate sui tetti o ai primi piani delle case, con donne, bambini ed anziani: per segnalare la loro presenza vennero sparati vari colpi di fucile nella notte, un modo anche questo per attirare l’attenzione e dar modo di poter fare azioni di salvataggio.

Dopo quattro giorni finalmente il Po iniziò lentamente a decrescere: il 15 novembre era ancora però a m. 7,85 a Piacenza ma il peggio era passato ed ora rimanevano solo enormi danni alle colture: nelle zone golenali migliaia di ettari di terra allagati e compromessi tanto da rendere problematiche le nuove risemine primaverili. Risultavano oltre 8000 gli ettari del territorio piacentino soggetti alla piena e rovinati, ben 5000 dentro all’argine e 3000 fuori argine, composti di terre coltivate e boschine di pioppo.

I pericolosi fontanazzi bloccati con i sacchi di sabbia furono oltre 50 ed il Genio Civile ebbe una grande parte nella grandiosa difesa e soccorso durante questo tremendo episodio di alluvione, anche il vescovo di Piacenza mons. Ersilio Menzani verso il mezzogiorno del 13 novembre andò fino al ponte sul Po con la reliquia di San Savino protettore dalle piene del Grande Fiume e per le centinaia di profughi piacentini furono messi a disposizione alloggi cui la Prefettura fungeva da coordinatrice.
Anche i fiumi Trebbia e Lambro ormai gonfi d’acque delle pioggie aggravarono la situazione per il fatto che il Po non permetteva il loro naturale sbocco e quindi era un ulteriore aggravamento aggiunto al flusso immenso d’acque.

Ovviamente occorre ricordare che il Polesine tra Ferrara e Rovigo fu quello più colpito dove si ebbero morti e desolazione immensa con migliaia di profughi che persero veramente tutto ed anche a Piacenza nei giorni successivi ne arrivarono oltre qualche centinaio per essere ospitati ed aiutati in tutto e per tutto, nel Polesine si era addirittura arrivati a dover far saltare con la dinamite un argine per lasciar espandere l’acqua in luoghi agricoli e poco abitati onde evitare l’allagamento di paesi rivieraschi.

Ecco la memoria di quei giorni per la nostra terra che giace quasi agganciata al Grande Fiume, che ne conserva però sempre e comunque un rapporto intenso che forse in questi tempi “troppo moderni” è un poco andato a scomparire ma 70 anni fa questo accadeva ed antrava nella storia locale piacentina per sempre. 
 
Umberto Battini
 
se copii cita fonte web e autore
la piena del PO nel Polesine foto dal web

 
 
 



11 novembre 2021

ROMAGNOSI E POLEMICA

L'ARTICOLO
apparso anche sul quotidiano web ILPIACENZA 
 
L'INGOMBRANTE TRASLOCO NEL 1958
DELLA STATUA DEL ROMAGNOSI 
 

immagine presa da LIBERTA' del 21 5 1958 foto Croci

C’è un gustoso aneddoto legato alla statua del Romagnosi recentemente ripulita e che svetta in tutta la sua bellezza artistica in centro a Piacenza in largo San Francesco. Infatti nel non lontano 1958 nel mese di maggio, venne tolta dal piedistallo, spostata e portata nel cortile della scuola Alberoni in attesa di darle una nuova sistemazione, che poi fu ancora una volta la stessa dalla quale venne maldestramente portata via e tutto questo non senza forti polemiche.

La cronaca locale del tempo che abbiamo potuto verificare, è impietosa sul fatto ed ecco allora che si titolava “Patetico trasloco da Piazza Cavalli del monumento a G. Domenico Romagnosi”, con un sottotitolo altrettanto forte che conviene rileggere così nella sua schiettezza: “Ha lasciato ieri largo S. Francesco, che occupava dal 1867, incatenato su un carro come un prigioniero alla gogna. Troverà provvisoria sistemazione nelle scuole Alberoni”.

L’articolo (non firmato) riporta anche una fotografia del fatto con in primo piano uno dei due cavalli ed un carro agricolo sul quale giace tutta infagottata e legata da forti funi la statua. Siamo nel maggio del 1958 e dopo ben 91 anni la statua “che ha saettato il suo disdegnoso cipiglio” su tanti piacentini veniva tolta dal basamento dopo una settimana di lavori, e per mezzo di un paranco collocata su di un carro tirato da due cavalli e che il cronista del tempo così racconta “il che ha conferito alla manovra l’apparenza di un funerale”.

Per i piacentini e perlomeno per quelli che degli scritti del Giandomenico Romagnosi ne sostenevano gli ideali, quel trasloco venne vissuto con toni negativi e con aspri confronti al punto che il paragone fatto riportava ad una derisione pubblica del Romagnosi e per analogia, di tutti coloro che ne elogiavano gli ideali.

L’aneddoto divertente è che appena la pesante statua del Romagnosi di “60 quintali buoni” venne posata sul carro, una gomma letteralmente scoppiò, e come apprendiamo sotto le risate divertite di chi assisteva al particolare trasloco ma non mancò pure chi invece vide nel fatto “un misterioso segno del caso” come una ostinazione affinché la statua non dovesse esser rimossa ed anche si alzarono critiche al fatto che per proteggere la statua da rotture, venne in certi punti ricoperta goffamente da stracci malconci.

Leggiamo che erano le cinque del pomeriggio esatte quando il carro finalmente ripartì con “in piedi sul rustico veicolo, Romagnosi, dall’aria più che mai seccata per l’irriverente gogna, cui sembrava essere sottoposto” in direzione della scuola Alberoni. 

Quella statua dedicata all’illustre studioso era lì fin dalla sua realizzazione nel 1867 per mano dello scultore Mazzocchi di Salsomaggiore Terme così come eran stati i natali dello studioso. Un particolare aneddoto ormai entrato nella storia recente e che meritava comunque di esser messo anch’esso agli “atti” di quella che è la vicenda di questa statua che ogni tanto, con il recente restauro, torna a far parlare di sé.

Umberto Battini

 

4 novembre 2021

COTREBBIA

E C C O
L'ARTICOLO SULLA FONDAZIONE
EX NOVO DI COTREBBIA
DA VECCHIA A NUOVA

 
OPPURE LEGGILO QUI SOTTO scorri e vedi
articolo di Umberto Battini 

UN SECOLO FA DA COTREBBIA VECCHIA A QUELLA NUOVA

La storia recente dei luoghi a volte ci scorre via, sotto al naso, e allora abbiamo cercato di dare una risposta al fatto del perché esistano due località non troppo distanti tra di loro chiamate Cotrebbia: una detta “vecchia” e carica di storia antichissima e ben conosciuta ed una chiamata “nuova”, ed è proprio a questa che presteremo attenzione.

Era il 1946 quando le spoglie mortali del parroco fondatore ex-novo di Cotrebbia Nuova, la frazione nel comune di Calendasco, vennero traslate da Bilegno fino alla sua cappella, un atto dovuto che i parrocchiani vollero per riconoscenza e buon ricordo. Infatti don Giovanni Molinaroli, nativo di S. Giorgio piacentino, consacrato prete, venne inviato a Gragnano e poi a Cotrebbia (vecchia) quale parroco ma col preciso incarico di rifondare quella parrocchia campagnola, tra il fiume Trebbia ed il Po dove tra l’altro era ufficialmente il Porto di Cotrebbia e che da qualche decennio era stato concesso in uso dallo Stato ad un lodigiano.

Il buon prete era detto da tutti “Barbetta” affettuosamente, uomo colto e docile che diede uno scossone importante a quella frazione del comune di Calendasco: spostò l’abitato di circa due chilometri più a sud-ovest in luogo più vantaggioso e protetto dalle alluvioni, e da zero fece costruire nel posto attuale la chiesa in stile neoclassico, la canonica, il campanile possente e moderno per l’epoca, un cilindro che si staglia nell’aria come un moderno missile, il camposanto (anche Cotrebbia vecchia aveva un proprio cimitero che fu dismesso) e le case popolari (purtroppo abbandonate da qualche anno) e pian piano si ripopolò anche di nuovi parrocchiani, sparsi nella campagna.

Il trasferimento legale della parrocchia di Cotrebbia dalla chiesa vecchia a quella nuova fu concesso con Regio decreto del 19 marzo 1908 a cura del Ministero del Culto e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia del 30 luglio 1908. In quel luogo don Molinaroli vi arrivò inviato dal vescovo il Beato Scalabrini che da Gragnano lo destinò a quel posto soggetto troppo spesso alle inondazioni di piena del vicino Po quasi come un missionario, ma con l’ordine preciso di rimetterlo a nuovo e così il sacerdote nel 1901 fece il suo ingresso nella chiesa di S. Pietro a Cotrebbia (vecchia), piccolo edificio di culto che prima era sotto la cura dei frati benedettini di San Sisto di Piacenza e che dal 1600 lo avevano concesso per uso parrocchiale. Prima di quel secolo, per un certo periodo, le genti di quel circondario andavano a sentir messa anche nel piccolo oratorio di San Giovanni Battista, nella campagna attigua ma poi purtroppo l’oratorio venne “mangiato” dalle piene e cadde distrutto e ne resta testimonianza solo nei documenti.

Andando indietro nel tempo, scopriamo che la chiesa di S. Pietro di Cotrebbia (vecchia) venne ridata ai frati di S. Sisto di Piacenza dopo le vicende delle confische ai Templari piacentini del 1308 qualche decennio dopo, passata quella bufera, e anzi come leggiamo da un atto notarile posto in Archivio di Stato di Parma l’8 dicembre del 1324 i frati la resero parrocchia in quanto buona parte di quel territorio era di loro proprietà, praticamente dalla località Puglia fino al Molino Frati, le Case Torri, terre alla Raganella presso il Po, i Ronchi, la Casa Bruciata ed altri luoghi elencati.

Leggiamo che secoli dopo nel 1817 quando era parroco don Francesco Morandi con Regio decreto di Francesco Giuseppe I d’Austria, cui Piacenza era soggetta, la località parrocchiale Isola, nel fiume Po posta circa di fronte a Cotrebbia, abitata da 200 persone venne passata alla parrocchia di S. Rocco al Porto mentre oggi ricade su Valloria, sempre sulla sponda sinistra del fiume dove tra l’altro era l’approdo del porto di Cotrebbia.

Don Molinaroli prese quindi possesso della chiesa di S. Pietro nel 1901, la stessa nella quale si recò il Barbarossa nel 1154 e nel 1158 durante gli incontri famosi passati alla storia come Diete di Roncaglia, dal nome antico di Somaglia che lì vicino aveva il Castrum di Runcalea e le terre dei Ronchi come insegnano le carte inedite che pubblicò lo storico Solmi un secolo fa.

Dato proprio il fatto delle piene che portavano disagi notevoli allagando anche la piccola chiesa, il sacerdote iniziò nel luogo che oggi tutti ben conosciamo, la costruzione della nuova chiesa e il 29 agosto 1904 pose la prima pietra con la solenne benedizione del nuovo vescovo di Piacenza mons. Pelizzari. L’edifico sacro venne terminato nel 1906 ed il campanile con quella forma particolare nel 1919, prima di allora sul tetto dell’edificio era ospitata una sola campana, ma poi per il parroco iniziarono periodi tristi e difficili: la storia di questo fatto ci racconta che per le troppe spese ed i debiti il sacerdote chiese aiuto alla Curia piacentina e per alleviargli questo gravoso fardello nel 1936 venne trasferito a Bilegno dalle parti di Borgonovo, dove vi morì nel 1946 e per devoto rispetto come detto venne sepolto a Cotrebbia.

Un episodio quasi tragico capitò a don Giovanni Molinaroli il 25 settembre del 1915 quando fu salvato dalla piena del fiume Trebbia da alcuni suoi parrocchiani pescatori locali abitanti alla Puglia di Calendasco: per oltre 5 ore lui ed il nipote Costantino, tornando da Piacenza restarono in balia della corrente su un piccolo isolotto sorpresi dalle acque impetuose, ancora a quel tempo il guado del Trebbia della strada antica per Calendasco era tra Camposanto Vecchio (Borgotrebbia) e la Malpaga e la strada nel tratto cittadino sbucava praticamente presso il santuario di S. Maria di Campagna.

Questa in sintesi è la storia recente del trasferimento ex-novo della parrocchia e frazione abitata di Cotrebbia, che tanta storia vanta a partire dalla sua fondazione per mano di Angilberga nel IX secolo, e che avvenne poco più di un secolo fa su istanza del vescovo mons. Scalabrini e in prima persona grazie a questo coraggioso e brillante sacerdote, che ancor oggi tra gli anziani, e per voci tramandate, è ricordato da tutti con buone parole ed affetto riconoscente.

Umberto Battini



25 ottobre 2021

MIRACOLI DEL 1432

IL MIO ARTICOLO
PUOI LEGGERLO SU ILPIACENZA.IT


I tanti fedeli piacentini che hanno ricevuto una grazia dalla Madonna a Caravaggio
 

23 ottobre 2021

MIRACOLI MARIANI

leggi il testo al LINK de ILPIACENZA
oppure scorri e leggilo qui sotto

FATTI INCREDIBILI

I MIRACOLATI PIACENTINI

DELLA FONTE DI CARAVAGGIO

NEL 1432

di Umberto Battini

Tra le decine di veri e propri miracoli elencati in un antico libro, spiccano anche i nomi di persone piacentine, che senza dubbio dopo aver conosciuto di quella apparizione mariana che ebbe quindi una bella eco fin qui a Piacenza, proprio da quel tempo si portarono fino a Caravaggio in cerca di una grazia.

Raccolti in un volume stampato a Milano nel 1635 “Historia e origine della famosa Fontana della Madonna di Caravaggio” sono una serie di fatti miracolosi trascritti dall’archivio storico del Santuario avvenuti a partire dal 16 maggio del 1432 quando avvenne l’apparizione ad una giovane donna di nome Giannetta. Sfogliandolo si possono leggere le testimonianze coeve di grazie ricevute da piacentini devoti della Madonna accorsi in quel luogo e che crediamo anche non senza dispendio di energie inquanto per quel tempo, intraprendere il pellegrinaggio da Piacenza fino a Caravaggio era un vero e proprio lungo viaggio di oltre sessanta chilometri che quindi si risolveva in non meno di due o tre giorni.

Troviamo citati fedeli di Fiorenzuola d’Arda, di Alseno, Piacenza e Santimento e vediamoli nel dettaglio, anche perchè il miracolo ottenuto non era certo qualcosa da poco, perlomeno a prestar fede a questi testimoni. Il 14 agosto 1432 quindi dopo solo tre mesi che si era verificata l’apparizione, accorre alla fonte miracolosa della Vergine di Caravaggio un certo “Giovanni di Fiorenzuola essendo sordo” da oltre quattro anni e lavando alla fonte le orecchie dalle quali sentiva solo “se non si gli metteva la bocca all’orecchio” recuperò immediato l’udito e ne lascia testimonianza.

Il 20 settembre 1432 “Giovanna, moglie di Bartolino dei Nicelli di Piacenza” di circa 40 anni fu liberata da una febbre che la assillava da almeno tre anni e mentre sulle prime il marito incredulo non voleva lasciarla andare “finalmente suo marito le promise di condurla alla detta Fontana” e come testimoniò venne liberata dalla febbre e anche da altre infermità. Da Fiorenzuola andò anche “Copina, moglie di Zanino Bosoni” che da tempo usava le grucce per il fatto che “talmente pativa nell’anca, coscia e gamba e piede sinistro” ma dopo che si fece lavare alla fontana iniziò a camminare liberamente e sono testimoni il padre dello sposo Antonio Bosoni e Albertino di Borgo sempre al giorno 14 agosto 1432.

E dopo aver appreso degli avvenuti miracoli il 3 settembre di quell’anno anche “Sibillina di Fiorenzuola di circa 60 anni” che era storpia nel braccio destro se ne andò a Caravaggio e dopo essersi lavata alla Fonte “fu liberata testificando ciò un suo figliolo e un nipote”. Così anche da Alseno si reca a chiedere guarigione “Franceschina moglie di Antoniolo Cappellaccio” che era “inspiritata da tanto tempo” cioè indemoniata e dopo che venne lavata nella fontana “fu abbandonata da quei maligni spiriti e liberà si partì” era il 15 agosto sempre di quell’anno. Un’altra indemoniata era “Giulia Franchi, moglie di Paolo Emilio Boselli Piacentino” che “era obsessa per spazio di un anno e mezzo da maligni spiriti” e quindi dopo essersi votata alla “Madonna della Fontana di Caravaggio” fu “esorcizzata il primo di maggio 1615” e “alli 8 di giugno venne col marito a render grazie... e a dar viva voce, e piena relazione del fatto”.

Anche il figlio di “Saio di Santimento di quattro anni e che non camminava fu portato alla Fonte miracolosa e immerso in quell’acqua “fu liberato e camminò così testifica sua madre il 28 agosto 1432”. Da Piacenza “Giacopo Fassina” conduce alla fontana presso il Tempio della Beata Vergine Maria la figlia “che non solo era paralitica ma anche aveva perduto un occhio e ne uscì del tutto liberata”, il che fa supporre in quel “del tutto” che oltre a camminare le tornò la vista all’occhio.

Questo è tutto quello che abbiamo potuto conoscere dal libro che raccoglie tanti miracoli dei più vari e di malati provenienti da tanti luoghi d’Italia e che ovviamente trovavano alloggio presso l’ospitale che sorgeva vicino al santuario con la speciale fonte infatti ancora nel 1600 “il suddetto Pio luogo della Fontana mantiene ancora un Hospitale in Caravaggio, nel quale si curano gli infermi e si alloggiano i Pellegrini e pure si allevano gli esposti fino a buona età”.

L’archivio antico di quel luogo possiede queste testimonianze ben trascritte e conservate, purtroppo non sappiamo se negli archivi piacentini delle chiese cui appartenevano questi miracolati, dopo il loro ritorno da sanati, ci siano carte che ricordino questi fatti che già a quel tempo fecere comunque scalpore, e bisogna per onor del vero ricordare che fino circa a un secolo fa nella diocesi piacentina non poche erano le chiese che avevano una cappella dedicata alla Madonna di Caravaggio con ottime pitture e la statua della Vergine con la giovane Giannetta inginocchiata ai suoi piedi con la fonte appena scaturita, e sicuramente una devozione che ha un ricco repertorio storico come appunto sono queste incredibili e sconosciute testimonianze piacentine.

Umberto Battini

se copii cita fonte e autore è etico

18 ottobre 2021

NOTO IL SINDACO

ELETTO IL NUOVO SINDACO DI NOTO
E' IL DOTT. CORRADO FIGURA
Nel 2015 era anche lui qui a Calendasco
in visita ai luoghi corradiani
 
Corrado Figura Sindaco di Noto
Auguri di buon inizio mandato in qualità di Sindaco della Città di Noto al nuovo eletto il dott. Corrado Figura ed anche già Portatore di San Corrado.
A Calendasco in occasione del dono del Cilio alla parrocchia del borgo natio del Santo Patrono nel febbraio 2015 a cura dei netini era anch'egli presente e visitò i luoghi principe della vita del Santo: castello dei Confalonieri, romitorio ospitale del ritiro dopo la conversione e la chiesa.
Da Calendasco quindi un augurio di buon lavoro e con la certa speranza che quel primo contatto di gemellaggio tra Calendasco e Noto posso avere ancora ulteriore sviluppo.
 
FOTO DA FACEBOOK 

15 ottobre 2021

LA LISTA DELL'INQUISITORE DEL 1309

QUI L'ARTICOLO
trovi anche il link per vederlo su ILPIACENZA

LE SPESE DELL’INQUISITORE
DEI TEMPLARI PIACENTINI
NELLE PERGAMENE DEL 1309

di Umberto Battini

E’ un lungo elenco davvero incredibile ed anche poco e nulla studiato quello presentato nell’anno 1309 dall’inquisitore generale dei Templari di Piacenza il frate domenicano fra Guglielmo da Genova e inviato personalmente qui dal papa.
Infatti dopo il sequestro dei beni mobili ed immobili dei cavalieri del tempio, cioè sia delle somme ricavate dai beni agricoli che dal fitto di proprietà, eseguito nel 1308 e che il frate ebbe a gestire di persona, presenta l’anno dopo anche una dettagliata lista dei ricavi e delle spese e non trascura veramente niente come vedremo. 
 
Per chiarezza diciamo subito che l’inquisitore che era  residente in Piacenza è stato autorizzato ad agire sui beni dei templari come detto piacentini, su quelli di Tortona e zona pavese, su quelli di Parma e di Cremona, e noi tratteremo del resoconto spese piacentino che riguardava la città, la domus di Cotrebbia e quella appena di là dal fiume Po di Castelnovo, delle terre dei Ronchi sempre dette in Castelnovo (di Somaglia per intenderci) sede già degli accampamenti del Barbarossa nel 1154 e la domus con chiesa a Fiorenzuola d’Arda.

Le preziose originali pergamene sono a Ravenna, dove si svolse il processo ai cavalieri emiliano-romagnoli e trascritte sempre in latino in un libro da un eruditissimo studioso e appunto da qui andremo a estrapolare le voci di spesa più curiose e strane, sicuramente poco conosciute, infatti della faccenda risalta sempre e solo il fatto processuale
Il 20 novembre 1309 l’inquisitore ci presenta il rendiconto (il Ratiocinium) degli introiti come amministratore dei beni dei Templari “Ratiocinium inquisitoris in Placencia... Infrascripta omnia recepta sunt de bonis Templariorum in Placentia...” e qualche giorno dopo il 24 di novembre l’elenco delle spese da lui sostenute (expense facte) per tale questione, per intenderci la lista delle entrate ed uscite in soldoni sonanti  “Infrascripte sunt expense facte per me fratem Guilielmum Ordinis Predicatorum Inquisitorem hereticorum pro factis et negociis Templariorum in Placentia”.

Estrapoliamo alcune voci, tra queste quella del costo delle pergamene sulle quali andavano scritti dal notaio gli atti compiuti “Item in papiro pro scribendis negociis eorumdem”; ricorrono varie spese di quando prese possesso dei beni di Cotrebbia posti oltre il Trebia andandoci con tanti frati e i notai “item eodem diem quando ivi ultra Trebiam cum pluribus fratribus et officialubus ad intrandum possessionem”.

E poi la spesa per mantenere tre sentinelle (custodibus), a voltre quattro o due, nelle varie fattorie (mansiones) e a guardia dei prati, ad esempio Cotrebbia aveva dodici mansi e anche ai terreni era necessaria la guardia perchè alcuni di essi erano stati rovinati di proposito come avevamo letto dagli atti dell’esproprio “item tribus custodibus mansionis et pratorum”; elenca le varie spese sostenute per andare a Fiorenzuola con ovviamente tutto un seguito “item quando ipso Inquisitor ivit Florenzolam” ed anche quando mise uomini di custodia in quel luogo e quelle per andare a Castell’Arquato.

Tra le spese l’inquisitore indica la voce “pro rasura” cioè per il barbiere che gli aveva fatto la chierica a lui ed ai suo soci: badate bene che anche una spesa irrisoria come questa viene messa sul groppone del mandato ufficiale ricevuto dalla curia papale. 
 
E’ ben risaputo il fatto che nel convento ove abitava, delle tonsure se ne occupava un frate e senza dover spendere un soldo, ma tant’è si vede che era un frate probabilmente pignolo “item pro rasura mei et socii” e così uguale per comprarsi le calzature nuove per lui e il vice inquisitore fra Giacomo di Montedonico “item in calceis pro me et socio”.
Dalla lista, riga dopo riga, riusciamo anche a comprendere un avvenimento storico accaduto al templare Giacomo da Fontana che viene rimborsato dall’inquisitore per certe varie spese e beni di 100 fiorni d’oro: ebbene sappiamo che il vecchio frate templare venne ad un certo punto aggredito dai sicari di Versuzio Landi e sgherri del Visconti e derubato di ben 80 fiorini d’oro. Così leggiamo “item ipsi frater Jacopo de Fontana totaliter expoliato... pro vestibus et lectualibus quam eciam pro suis infermitatibus...et aliis suis necessitatibus et victu” per un anno intero e quindi gli fu data per pecunia la somma di “centum florinos aurey”.

Non manca la spesa per mettere uomini di guardia ai beni immobili, quali ad esempio la domus di Cotrebbia e per portare là del vino per il servo “item in vino portato ultra Trebiam pro servitore nostro” e quella per far falciare, raccogliere e riporre il fieno “item pro feno secando, coligendo et reponendo in cassina...” con tante altre varie spese per far lavorare i terreni e per portare i prodotti agricoli in città. Ma addirittura “item pro reparacione muri et porte que cecideret” cioè per sistemare muri e porte che cadevano, per il tetto di un mulino, insomma era anche un ottimo amministratore il nostro inquisitore che provvedeva al buon mantenimento dei beni a lui affidati.
Una spesa che ricorre più volte volte è quella della nave per andare da Piacenza a Cremona e viceversa “item de Cremona in Placentiam in navi” cosa che ci fa comprendere come fosse navigato il fiume Po; spese varie tra cui la riparazione di una sella, visto che si viaggiava a cavallo “item pro reparacionem sellarum” e anche per ferrare un cavallo “item pro feratura unius equi” così come per la paga del suo servo personale “item famulo nostro pro salario suo” ed altre per uomini suoi sottoposti.

Sorprende la spesa per mantenere gli ex-templari alcuni dei quali ridotti in miseria, ai quali lui deve provvedere vitto, alloggio e vestimento sia piacentini che cremonesi “item pro necessitatibus trium Templariorum quos habeo Cremone”. Non manca anche di farsi rimborsare quando ha celebrato messa nella chiesa templare di Sant’Egidio a Piacenza in quella festa con concelebranti “item in Festo sancti Egidii pro me et hiis qui mecum venerunt ad celebrandum ipsum” e ovviamente le spese in diversi tempi dell’anno, per mandare i messi in vari luoghi e città quale ad esempio Milano e il rendiconto sulle expense facte continua in modo interessante.

Il nostro inquisitore insomma non ha gravato minimamente sul bilancio del convento dove era ospitato, quello domenicano di S. Giovanni in Canale, e con dovizia presenta una semplice, lunga e chiara lista delle spese, che abbiamo proposto solo per alcune parti ma che meriterebbe uno studio accurato e mirato perchè come si intende, si può meglio comprendere quel periodo storico e affascinante della città di Piacenza e anche sarebbe curioso sapere dove vennero inviati i denari in attivo risultanti dal conto.

Umberto Battini
 

13 ottobre 2021

1309 LA LISTA DELL'INQUISITORE

LEGGETE DAL LINK
IL BELL'ARTICOLO SULLA LISTA
DELLE SPESE DELL'INQUISITORE
DOPO LA CONFISCA AI TEMPLARI
DI PIACENZA
se copii qualcosa cita fonte ed autore è etico 
articolo del 13 ottobre 2021 
 
 
leggi anche un articolo precedente
clicca qui esproprio 1308 Piacenza
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clicca qui la purgatio 1311 Piacenza
 

 

11 ottobre 2021

MIKE BONGIORNO A CALENDASCO

ERA IL 1965
INVITATO DALLA PRO LOCO
A CALENDASCO MISTER "ALLEGRIA"

Per il Festival del Po di musica leggera al quale participarono cantanti locali e delle provincie vicine, e questo fatto organizzato dai nostri compaesani merita di esser ricordato
Ecco il breve articolo apparso sul quotidiano piacentino.

9 ottobre 2021

CALENDASCO ANNO 1890

GUERRA AL BALZELLO
CALENDASCO NON E’ IL PAESE DI BENGODO

Cronaca politica dell’anno 1890

di Umberto Battini

Al termine dell'articolo trovi anche il testo originale leggibile

Divertente aneddoto socio-politico tratto da “Il Comune giornale settimanale di Piacenza” dell’anno 1890 dal quale deduciamo che in quel periodo la “quietissima borgata... [di] Calendasco non è parente col paese di Bengodo, le cui siepi fiorivano cotechini e salsiccia...”. Eravamo nel mese di novembre e si stavan preparando le nuove elezioni comunali e il cronista afferma che “qui i lavoratori ottenevano lavoro e pane per tutto l’anno, oggi si trovan quasi ridotti al lumicino per le infinite gravezze che il governo impone agli agricoltori, e appena riescono a trascinare innanzi la vita”.

Un periodo quindi veramente nero dal punto di vista economico per le famiglie che vivevan a Calendasco e nel territorio comunale, prevalentemente di lavoro agricolo e si portano per esempio i grandi danni causati dalle piene del fiume Po che strappa grandissime quantità di terreni utili al lavoro agricolo, soprattutto nella zona di Cotrebbia e Malpaga, che sono due odierne modeste esistenti frazioni.

Continua l’autore del pezzo che si firma solo con una T maiuscola: “Come sapete, dal lato di Cotrebbia il Po mangia ogni anno intiere possessioni, ed il Governo - che butta tanti denari in Africa e in banchetti e conferenze - lascia mangiare e nulla tenta per frenare questo tremendo lavoro di distruzione”.

Appare chiaro che il Po - come ancor oggi fa ma molto meno inquanto regimentato dall’argine maestro - tenta di erodere le sponde fluviali durante le piene e con la forza della corrente dove esonda appunto mangia, come scrive l’autore citato, terra bonificata e lavorata, a quel tempo esisteva un argine molto basso.

Leggiamo: “Quei di Calendasco non voteranno pei ministeriali e pei moderati - che è la stessa cosa - perchè qui son tutti tacitamente d’accordo di seguire quella bandiera che porti il motto: guerra al balzello”.

Un chiaro richiamo politico con un altresì chiaro esempio di malgoverno che stando a quanto qui ben descritto, lasciava ognuno ai propri crucci locali e senza ovviamente prestar orecchio al disagio enorme che recava ai lavoratori e quindi alle loro famiglie costrette a povertà. 

Ma lascio ad ognuno di leggere questo breve testo, curioso e ben scritto con un ottimo stile critico che in quel secolo andava direttamente al sodo senza piroette ed in più rende maggiormente ricca la nostra storia locale fatta anche di questi sconosciuti e dimenticati accadimenti e che con piacere porto a pubblica conoscenza.

Umberto Battini

studioso di storia locale

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