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28 aprile 2022

20 aprile 2022

FRA GORGONE 1261

UN MIO ARTICOLO
apparso su ILPIACENZA
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A Piacenza tutti rimasero di stucco in quel 1260 quando processioni più o meno numerose di uomini e donne passarono per le vie cittadine: erano i “flagellanti” che percuotendosi con fruste fatte di corda o cuoio lanciavano un grido di penitenza tra la gente cercando conversione per il mondo.
Intanto appena un anno dopo, nel 1261, a Bologna un frate francescano dei minori, scriveva la Regola dei Cavalieri della Beata Vergine Maria, si trattava di un frate che aveva fatto “carriera” presso papa Urbano IV  come penitenziere cioè confessore ed era di Piacenza: fra Ruffino Gorgone, del quale spilucchiando le fonti sia locali che romane, ben poco sappiamo.

Su istanza di alcuni nobili cavalieri tra i quali due ex Podestà della città di Bologna, cioè Loderingo Andalò ghibellino, accanito antipapale, e Catalano dei Malavolti guelfo papalino e pure lui piacentino, nasce questa Milizia religiosa. Fatto è che di fra Gorgone e di Catalano Malavolti entrambi di Piacenza poco trapela e questo è ciò che ci raccontano le fonti storiche più precise.
La Regola (approvata dal papa) comunque è certamente “Composita et ordinata fuit Militum B. M. V. mediante frate Rufino Gorgone de Placentia...” lo scrive un importante volume storico del 1787 stampato a Roma. Questo Ordine laico di fatto venne poi associato ai terziari Domenicani e resta un evento quasi inspiegabile per il fatto che sia stato un frate francescano a scrivere la Regola e non un domenicano, ma questa è la storia e questo resta agli atti.

Non ebbero mai monasteri, però vestivano una tunica bianca con crociona rossa (tipo quella dei Templari) che sui due bracci della stessa aveva due stelle a sei punte e portavano un mantello grigio; furono associati ai Terziari Domenicani, una “specie” di brutta copia del più diffuso terzo ordine francescano “de penitentia nuncupato” e i Godenti furono pure un doppione mal riuscito dell’Ordine Templare.
Lo scopo del loro Statuto era risolvere conflitti e fare negoziati tra guelfi e ghibellini, che in quel medioevo dominavano aspramente la scena in ogni città compresa Piacenza: infatti i due “capi” erano appunto il ghibellino Andalò ed il guelfo Malavolti.
Tanto erano amati questi frati Godenti con i Flagellanti che il Pelavicino, Signore di Cremona, ne proibì il loro ingresso in città, e fece innalzare sulla riva del Po cremonese dinanzi alla riva del territorio piacentino, alcune decine di forche come monito: il primo che avesse osato passar il Po finiva lì impiccato senza sè e senza ma!

Il racconto storico più nostrano e vero ci viene da un testimone oculare: fra Salimbene de Adam francescano dei minori di Parma la cui “Cronaca” è un vero caposaldo storico importantissimo, dal quale attingere certi aspetti di quegli anni nel più scrupoloso dettaglio.
Il testo scritto in latino ha avuto ottime traduzioni, e noi ci atterremo a quella fatta dal noto filologo Giuseppe Tonna che ne pubblicò una traduzione perfetta però a sua volta riportata in quel parlare volgare medievale e per questo ancor più fascinosa e accattivante.
Scrive il Salimbene: “costoro son chiamati dai rusteghi, per beffa e canzonatura, li Godenti: e intendono dire che non voglion far parte dei loro beni agli altri ma li tengono per se”, ebbero anche qui a Piacenza un piccolo numero di adepti ma non presero piede causa forse la già nota loro poco serietà. 
Ancora leggiamo “i Godenti si moltiplicano come il pane in mano al famolento... non fanno opere di carità... con tutti i soldi che hanno non cotruiscono nè monasteri, nè ospedali per i poveri nè ponti o chiese”, lo scritto del Salimbene è ironico e canzonatorio, l’esempio del “famolento” ne è la prova, amavano gozzoviglia e denaro.
E aggiunge “son gente avarissima... si danno a godoviglie e al mangiare con gli istrioni... e vorrebbero far parte dei monasteri dei religiosi” e cosa peggiore “non si sa a cosa servano alla Chiesa di Dio, cioè a cosa sian utili”. Avendo travisato il loro principale ideale della Regola, cioè la pacificazione tra fazioni opposte, con questa scusa “strappano beni agli altri con ruberie, arrogandosi il loro potere, e non hanno mai a nessuno restituito il maltolto”.

Dice fra Salimbene di aver potuto vedere dei Cavalieri di Santa Maria il buon inizio ma poi in poco tempo il loro venir meno, cioè letteralmente vide “l’inizio e la fine, ben pochi entravano nel loro Ordine” e furono zimbello del popolo tra Parma, Reggio Emilia, Bologna e Piacenza.
Storicamente quindi questo Ordine Militare laico, tra il popolo ebbe triste nomea per il mal esempio e nell’Historia Ecclesiastica del Campi piacentino possiamo attingere ben poche notizie e tra queste relative all’anno 1261 scrive circa i Godenti “la qual militia indi a poco in Piacenza, forse per l’opera del medesimo fra Ruffino, un simil consorzio fondato fù”.

Nonostante il frate minore Gorgone che ne stese la Regola ed il nobile Malavolti fondatore, entrambi di Piacenza, pochissimo sappiamo di loro, delle loro famiglie, così come quasi nulla trapela sulla evoluzione della Milizia Godente piacentina, che è assodata ma chissà per quale mistero, non ha lasciato traccia tra i nostri storici locali più attenti. Probabilmente, per lo scandalo e la derisione che avevan tra il popolo piacentino, questi cavalieri delle “godoviglie” furono un fuoco di paglia che senza lode e senza infamia svanì nell’oblio della storia piacentina.
 
Umberto Battini
 

13 aprile 2022

GABELLE SUL PO

UN BELL'ARTICOLO
da leggere con curiosità
 
Da sempre Piacenza convive con il fiume Po, ai nostri giorni rimane un semi-romantico serpentone d’acque più o meno frequentato, ma in secoli ormai lontani oltre che fonte di lavoro per barcaioli o pescatori professionisti, era per le autorità di governo, una fonte di reddito. Nell’epoca medievale nessuno sfuggiva a qualche tipo di dazio per qualsivoglia attività e quindi anche tutto quel mondo che girava intorno al Grande Fiume era occasione per riscuotere una tassa più o meno “salata”.

Il Po piacentino in quei secoli era suddiviso tra vari enti, proprietari di diritti quali la pesca (jus piscandi) in un tratto della sponda, il suo passaggio da riva a riva (vadum) o il poter mettere mulini e attraccare con imbarcazioni. Coloro che possedevano diritti sulla sponda erano il Comune cittadino ed il monastero di San Sisto, ma addirittura vantava diritti sul Po quello delle monache di Santa Giulia di Brescia ed ovviamente il Vescovado cittadino. Le suore bresciane per lungo tempo riscuoteranno un lauto affitto per il Porto Piacentino e ponte dal Comune e proprio per questo fatto, visto il buon giro di moneta sonante, non rare e protratte negli anni furono le liti, che possiamo conoscere al dettaglio leggendo nei fondi d’Archivio di questi enti così come nel Registrum Magnum.

Il concetto di diritto relativo al fiume e ad un Porto o ponte di barche non era solo codificato in un ben distinto luogo situato sulla sponda del Po ma riguardava un lungo tratto dello stesso, relativo ovviamente alla sponda piacentina, che poteva essere anche di ben oltre un chilometro sia a monte (direzione Pavia per capirci) che a valle e uomini a cavallo pattugliavano le rive per impedire traversate di frodo con barcaioli più o meno consenzienti.

Il tratto di fiume più ambito (e che ci ha lasciato una fitta documentazione coeva) era quello posto al nord-ovest cioè dalla foce del fiume Lambro e in giù fino alla città: San Sisto la farà da padrone nel tratto che andava dal Mezzano di Calendasco fino alla confluenza del Trebbia e poi in su per quest’ultimo fino a poco prima del guado o ponte a Case di Rocco che era dei cistercensi di Quartazzola. Al Comune sarà dato di gestire il porto di Piacenza (che aveva in fitto da S. Giulia di Brescia), e lo stesso Comune lo sub-affittava ed era situato più o meno davanti a Porta Borghetto, men-tre il porto sul Po ad est della città era di dominio del Vescovo ed era chiamato Portatorio.

Fatto salvo che i documenti regi e papali circa la concessioni di diritti sul Po a Piacenza e territorio sono antichissimi, basti ad esempio citare tra i tanti quello di Carlo Magno del 787 circa il “Portus qui dicitur Lambro et Placentia” o ancora l’accordo tra Piacenza e Ferrara del 1181, vediamo nel dettaglio come erano chiamate queste gabelle di fiume.

Per passare da un lato all’altro sopra a nave o battello troviamo ad esempio il fatto di dover pagare un dazio detto “naulum” oppure più facilmente il “ripaticum” (attracco sulla riva) e il monastero di San Sisto ne riscuoteva sia per “Padum vivum che mortuum”; per chi navigava ed era un mercante diretto da o per Pavia o viceversa Ferrara e poi Venezia, pagava il dazio di fune così come leggiamo nell’accordo importantissimo del 1181: “nisi due solidos de fune navis” per la sosta oppure per il solo passaggio “una libram piperis Supra Rivum” e altra a Roncarolo piacentino.

Quindi i conduttori di barche si ritrovavano a dover versare gabelle che erano così suddivise: il “ripaticum” per attracco alla riva, la “palifactura” per attaccare naviglio ad un palo nel Po, la “transitura” che come detto riguarda il transito o traverso sull’alveo senza nessuna sosta ed il “portonaticum” che è la sosta ad un porto riconosciuto.

Già l’Editto di Rotari del 643 scritto in latino, regola questo dato di fatto con alcune leggi relative al “De Portonario qui super flumen portum custodit” cioè “Del Portonario che custodisce un porto sul fiume” che quindi aveva obblighi e diritti tra questi appunto la riscossione di ripatico e portonatico.

Il “Portonario” medievale governa le barche, traghetta da riva a riva e appunto si occupa di riscuotere la gabella da chi è dovuta, altre volte possiamo vederlo chiamato “Telonario” da teloneo che indica una tassa, per evitare però esborsi, gli enti sopra nominati avevano attestazioni giuridiche che li facevano esenti da qualsivoglia tassa che valeva pure per i loro sottoposti e massari addetti al lavoro delle terre e al trasporto di prodotti agricoli, non è raro quindi anche il riconoscimento di “liberum transitum” in barca sul Po.

Se si transitava su di un ponte di barche si versava il “Pontaticum” e il dazio variava in questo caso a seconda del tipo di carico, di persone o animali al seguito ed esiste tutta una interessante casistica con un prezzario definito e come attesta una carta del 1149 al Porto i “romeos” (i romei, pellegrini) pagavano un denaro “pro capite”.

Il luogo di esazione era detto Berghente, dentro a questa casa galleggiante, montata su di un grande barcone, risiedeva il Portonario, ad esempio il porto di Piacenza aveva il Berghentino galleggiante a Porta Borghetto mentre poco a monte sulla sponda lombarda ma soggetta a San Sisto, era il Berghente questa volta però con una propria costruzione poco discosta dalla riva del Po ed è qui che si pagava il ripatico.

Una precisa mappa topografica del 1641 conservata in Archivio di Stato a Parma circa il fiume Po a Piacenza ci mostra nel dettaglio il Porto della città così come era esattamente: nell’alveo una lunga fila di pali piantati (le famose puntazze, un lungo palo con la parte da sotterrare nell’acqua a forma conica ricavate da un tronco d’albero, delle quali una è stata rinvenuta poco tempo fa davanti a foce Lambro al Boscone Cusani di Calendasco) con barche da trasporto merci ormeggiate alla maniera “fune navis” o “palifactura” ed altre ormeggiate a modo di “ripaticum” cioè accanto alla riva ed anche vediamo riprodotto sulla mappa il Berghentino del custode-esattore con la esatta ubicazione della “strada del Porto”.

In sintesi queste erano le varie forme di pagamento per navigare sul Po attestate nei documenti piacentini, che partono addirittura dall’epoca longobarda e queste tassa-zioni saranno nei secoli a venire sempre meglio regolamentate. Tra XII e XV secolo i notai piacentini avranno il loro buon daffare nel redigere, confermare o rinnovare patti, esenzioni, concessioni e diritti di riscossione tra i vari enti civici e religiosi piacentini. 

Il Grande Fiume era parte integrante della vita politica, sociale ed economica di quel sempre più sorprendente medioevo piacentino, che ci presenta mille sfaccettature e che leggendole nel particolare ci permettono di conoscere meglio le nostre radici.

Umberto Battini

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9 aprile 2022

MEDIOEVO NOMI E COGNOMI

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di Umberto Battini
 
Registrum Magnum: sembra il titolo di un romanzo medievale, oppure di un vecchio libro di scartoffie antichissime. In effetti è proprio così: è l’imponente raccolta medievale di carte latine del Comune di Piacenza, trascritte tali e quali con un monumentale lavoro qualche decennio fa e contenute in alcuni poderosi volumi.

Questi testi per gli storici locali, e non solo, sono una miniera di informazioni d’attività umane, con nomi di luoghi e di persone d’ogni rango e tante altre notizie utili, ma se li andremo a sfogliare senza pretese il nostro occhio potrebbe cadere su alcuni nomi e cognomi di piacentini a dir poco stupefacenti e irriverenti, almeno per come noi oggi, dopo mille anni, li intendiamo.

Intanto bisogna dire che nel medioevo, il fatto di veder associato un cognome al nome non era ancora una pratica “obbligatoria”, per cui non è raro vedere comparire in atti notarili ufficiali ed anche magari importanti, solo citato il nome di battesimo dei contraenti. Una prassi assodata era anche quella di mettere accanto al nome il luogo di nascita o di provenienza, oppure il mestiere svolto o il titolo nobiliare.

I nomi e cognomi che abbiamo “spulciato” dagli atti notarili si riferiscono a uomini che vivevano a Piacenza o nel suo districtus (territorio) nel pieno medioevo intorno agli anni che vanno dal XII al XIII secolo.

La maggior parte di questi sono di casate più o meno nobiliari quali i De porta, i Confalonerii, i Da Fontana, Landi e Siccamelica, oppure Mantegacii, i Mussi, Sordi, Muggiani, Degli Andito e tantissimi altri magari arrivati fino ai nostri giorni.

Ad esempio legati ai luoghi di nascita si trovano citati Oberto de Preduca (meta oggi in Valtrebbia), Berni de Travazano, Fulchonis de Pigazano e Marco de Pegoraria (Pecorara), Guilelmo de Rottofredo (Rottofreno) e tanti altri legati a località della nostra provincia.

Se tutti sanno il significato della desinenza latina caput (capo, testa) ci pare abbastanza curioso vederla associata ad un cognome e così abbiamo il piacentino Caputasini (testa d’asino nel 1184), Capitisporci (testa di porco nel 1189), Capitisagni (testa d’agnello, forse perché piccola nel 1186) e un Caputdeca (testa quadra nel 1210); quindi i nomi di derivazione animale Porcello, Rondana, Scorpione e Lupum.

Legati all’essere militi “cattivissimi” troviamo un Porcello Squarciavilla ed un certo Cacciaguerra. Interessanti e buffi altri nomi generici, che al solo pronunciarli ci indicano a cosa si riferiscano: Buccapiccina, Ugo Buccabarile (riferito a bocca grande), un Buccamatta e altro Calcabrina (schiaccia brina), Passaguadi, Malparente, ed il nobile di nome Leccafarina della casata dei Fontana.

Ma un altro notaio ci trasmette pure la memoria di un Baciadonna e di Paucamcarnem (pocacarne, forse perché molto magro) e di un Ottobonus Cugnambigulo con Spezacaviliam. Curiosissimi i cognomi Mazaboro (zuppa di salnistro) e il prete Guilelmo Mazavegia (zuppa vecchia), Jacopo Malacorigia (mascella di cuoio) e un Isenbardi Collumdezuca.

Infine, sempre dal Registrum Magnum, cinque cognomi irriverenti desunti così come appaiono scritti tra le carte di notaio. Oltre a farci sorridere ci dimostrano come tutto rientrasse nella normalità in quel medioevo piacentino: nel 1173 Niger Cacaterra, nell’anno 1191 Hubaldus Cacaincampo e poi nel 1181 Lanfranco Cacalardum e quindi un certo Albertus Cagaspelta nel 1209 (la spelta è una antica qualità di farro a quel tempo molto coltivato) per finire con Obertino Cagarabia nel 1360. Come recita l’adagio latino: “nomen omen”, ovvero un nome e un destino.

Umberto Battini
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6 aprile 2022

NOMI MEDIEVALI A PIACENZA

UN ARTICOLO DE  ILPIACENZA.IT
SU IRRIVERENTI COGNOMI E NOMI PIACENTINI
TRA XII E XIII SECOLO

 
 

3 aprile 2022

CASTELLANI MEDIEVALI

FEUDATARI PIACENTINI
IL GIURAMENTO


 
Nel XII secolo ed oltre il governo comunale piacentino richiede ai nobili che fan sottomissione di abitare nel castello del contado, quindi di difendere i diritti piacentini e giurare fedeltà al Comune. Insomma un mezzo per salvaguardare in modo efficace i beni cittadini e quelli del contado.
Il vassallo, che rimane padrone del suo feudo e castello, giura sul Vangelo: un impegno molto serio, che indica anche di esser agli ordini dei Consoli di Piacenza cui deve obbedienza.
La formula è tramandata, si trova nel Registrum Magnum e inizia così: "Juro ego ad Sancta Dei evangelia quod bona fide et sine fraude de cetero ero fidelis Comuni Placentie...".
Si giura fedeltà totale al Comune contro i nemici.
 

1 aprile 2022

MAPPA SPECIALE

MAPPA IMPORTANTISSIMA
RITROVATA DA UMBERTO BATTINI
Era il lontano 1997

Da allora gli studi intorno al borgo di Calendasco e soprattutto circa San Corrado, presero il volo.
 
La mappa, precisa nella sua topografia, venne rintracciata e resa pubblica per il suo contenuto, da Umberto Battini studioso e agiografo del Santo Eremita.
Correva l'anno 1997 e quando dall'Archivio di Stato di Parma se ne tornò a Piacenza e Calendasco con l'immagine di questa mappa, che nel particolare anche riprendeva il borgo di Calendasco perfettamente come era alla fine del XVI secolo, fu la perfetta sintesi tra documenti, storia e tradizione conosciuta circa aspetti corradiani.
E poi ritrovò il Battini, gli inediti documenti notarili circa l'hospitio dicti loci Calendaschi che ne confermavano l'esistenza, la sua antichità ed il suo sopravvivere nel tempo, difatti queste carte sono della metà del XVII secolo.