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31 marzo 2022
TAPPA XXXIX SCE ANDREA
30 marzo 2022
ARGINATURA DEL PO
28 marzo 2022
IL PO
27 marzo 2022
PIACENZA ERETICI E ROGHI
Probabilmente sì: anche le strade concorrono a portare, oltre che gli uomini, le loro idee. E pare proprio che anche i pellegrini raccogliessero, con il loro andare di luogo in luogo, le più svariate notizie d’eresia e magari pure vi aderissero senza riserve.
Alla biblioteca civica Passerini Landi in città, è possibile consultare un interessante volume a stampa, che riporta un testo latino composto a Piacenza nel 1235. Lo ha scritto con dovizia un dotto laico piacentino, tal Salvo Burci. Un testo che a quel tempo fece scalpore perché era una specie di antologia ragionata delle sette ereticali che gravitavano proprio qui in città e nel suburbio.
Si tratta del “Liber suprastella” ed elenca in modo maniacale le sette eretiche cittadine, anche se il testo è prettamente un trattato anti-cataro, una tra le sette sbocciata sempre dal solco del cristianesimo che criticava con proprie formule teologiche e sociali il clero, che ormai da tempo, ed è anch’esso dato storico, dava non pochi scandali tra il popolo.
Sappiamo che castelli e ville (le moderne frazioni rurali) erano le sedi preferite dei catari in Italia. Leggiamo da Salvo Burci che essi erano “tagliati fuori dalla Chiesa, mescolati con altri eretici, imbevuti di false dottrine...” e andavano questi “perfetti, per villaggi e campagne, si insinuavano nelle case, colombe nell’aspetto ma volpi nel cuore, demolivano i dogmi cattolici insinuando credenze proprie, indugiavano sui vizi del clero...”.
I catari predicavano purezza, un ritorno alla primitiva vita del cristianesimo, arrivando ad avere propri vescovi, seguitissimi e gran predicatori. A Piacenza hanno più di una casa sotto la guida di diaconi preposti ad indottrinare queste decine di convertiti.
Ma come scopriamo leggendo dal Burci, qui in città anche tra loro c’erano divisioni di vedute: troviamo quelli che seguivano un vescovo a Desenzano del Garda, detti “Albanenses”, e un altro folto numero di seguaci detti “Concorricii”, cioè dipendenti da una chiesa catara vicino a Monza, precisamente a Concorezzo.
La medaglia ha in questo caso un risvolto, infatti da quella città arriverà a reggere l’importante chiesa di Ravenna, l’arcivescovo Rainaldo da Concorezzo, uomo severo ma giusto sotto ogni punto di vista, inquisitore dell’accusa di eresia dei Templari del nord Italia e tra essi, anche i nostri locali, assolti nel 1311 con formula piena da ogni ingiuriosa accusa.
Con il vescovo Rainaldo si capì che inquisizione non significa per forza “torture e roghi di uomini”, ma rigida applicazione di leggi nel rispetto della persona accusata, ma purtroppo l’agire nella legge del prelato rimase quasi un caso a parte addirittura biasimato da papa Clemente V.
Bisogna dire che la caccia ai settari piacentini, definita come Milano una brutta “fovea haereticorum” (una fossa d’eretici) e per fovea si intendeva in questo caso quel grande fosso che raccoglie le acque reflue, la fogna per intenderci, per la Chiesa di Roma era iniziata ben prima. Difatti il frate inquisitore Raimondo Zoccoli nel 1230 qui in città ne butta direttamente tanti sul rogo senza pietà e questo non servirà certo a calmare gli animi.
Anche il frate inquisitore Rolando da Cremona nel 1233 in un infuocato ottobre, dalla piazza del duomo, tiene un discorso crudo e duro contro i locali eretici, invitandoli all’abiura e al rinnegamento di quelle malsane idee contro la Chiesa costituita. Finirà con un assalto al frate che sarà malamente pestato ma, per sua fortuna, messo in salvo. Su questo episodio anche lo stesso papa Gregorio IX interverrà per sedare gli animi, inviando a Piacenza la piena assoluzione per gli incauti aggressori del frate cremonese. Fatto sta che nel 1266 i legati del Papa Clemente IV con gli inquisitori qui a Piacenza catturano e processano molti eretici e senza giri di parole li condannano alle fiamme.
Ma nel “Liber suprastella” sono indicate tutte le sette radicate sul territorio e l’elenco fa davvero venir la pelle d’oca: è vero che questi uomini eretici si muovevano sul filo del rasoio del vivere legale anzi spesso fuori legge abiurando ogni dottrina, ma tutto ciò significava che la Chiesa in generale e nel particolare quella piacentina, era veramente in piena crisi.
Le sette ereticali di Piacenza elencate dal libro sono: gli Speronisti, i Poveri di Lione, i Poveri Lombardi ed i Catari. La forma più antica di eresia, quella che prende forma già nel 1100 e che si trascinerà per circa due secoli, resta quella dei Patarini, il movimento fuori legge della Chiesa conosciuto come Pataria.
Un fatto assodato è anche quello che gli ordini religiosi riconosciuti purtroppo finirono per essere “copiati e usati” da questi eretici, ad esempio la setta dei Poveri lombardi si rifaceva agli Umiliati mentre i Fraticelli usciti dal francescanesimo, tentavano di salvarsi la pelle continuando nel loro vivere ereticale, vestendo l’abito grigio dei penitenti terziari di S. Francesco.
Abusavano della professione de paupere vita, al punto che nel 1317 con la Bolla “Sancta Romana” papa Giovanni XXII proibiva a qualsiasi autorità di perseguire i Terziari francescani, ingiustamente confusi con gli eretici Fraticelli che invece “portavano un abito deforme e uguale a quello dei poveri penitenti”.
Qui nel piacentino in quegli anni abbiamo il solido e storico esempio di questo fatto, pensando ad esempio al penitente terziario S. Corrado Confalonieri che si era ritirato tra i frati penitenti dell’ospitale francigeno poco discosto da Calendasco e retto da fra Aristide che qualche documento dice Beato, vestiti dell’abito grigio del riconosciuto “tertio ordinis sancti francisci de penitentia nuncupati”.
Se quindi è vero che le strade portano uomini e idee d’ogni sorta, la cosa certa è che a Piacenza queste idee fuori dal coro attecchirono benissimo. Vennero messe a tacere per mezzo di roghi, bruciando sulla pubblica piazza uomini e donne ribelli. Ma con quel fuoco maledetto non si bruciavano gli ideali ma anzi si dava loro più forza: l’eretico era equiparato dai suoi adepti ad un martire e questo martellava quindi le coscienze di ogni libero cittadino.
L’eresia e come fu combattuta tra ‘200 e ’300 qui a Piacenza rimane un argomento cruciale, per fortuna ben discusso e argomentato dagli storici anche in tempi a noi abbastanza recenti, e che si offre all’intelligenza del lettore per poterlo approfondire, vista la mole imponente di materiale e fatti che renderebbero il discorso ben più articolato e coinvolgente.
Umberto Battini
26 marzo 2022
FIERA DEL PO IL SABATO
24 marzo 2022
23 marzo 2022
MONUMENTI SOTTO AGLI OCCHI
21 marzo 2022
SACCO DEL 1447
di Umberto Battini
È di certo una battaglia dal profilo quasi epico quella che si svolse a Piacenza nel 1447, tra colpi di bombarda incessanti scagliati sia da terra che dal fiume Po, conclusa con la disfatta completa della città, che fu data al sacco senza pietà.
In questo fatto di guerra ha un rilievo anche il Grande Fiume: per tutto il tempo dell’assedio, durato poco più di quaranta giorni, un ruolo importante sarà svolto da quattro grandi galeoni e decine di navi cariche di uomini, inviate da Pavia e messe a battaglia davanti a Piacenza e cruciali nell’evitare l’attracco dei galeoni veneti inviati a difesa dei piacentini.
E’ fondamentale anche il ponte di barche gettato dagli assalitori davanti a Porta Borghetto, zona strategica perché qui era uno dei due antichi porti cittadini.
Il 21 settembre 1447 sul Po a Piacenza compare il vessillo dello Sforza che svetta anche su decine di altre navi minori cariche di ben 500 soldati pavesi che occupano anche il canale della Fodesta nei pressi del quartiere dei navaroli di Sant’Agnese.
L’assedio decisivo inizia il 1 ottobre del 1447 e si conclude con i fatti di sangue, di violenza e profanazione che lasciano senza fiato: il sacco avviene sabato 16 novembre e probabilmente è un episodio di storia cittadina che merita il ricordo, perché ci insegna che tutto ciò che siamo oggi in fatto di libertà, espressioni e progresso sono passati anche per queste quasi dimenticate e secolari strade di guerra.
Esattamente cento anni dopo, un altro clamoroso fatto politico segnerà la storia piacentina: l’uccisione il 10 settembre 1547 del Duca Pierluigi Farnese, ma questa rimane un’altra storia.
Francesco Sforza temuto condottiero milanese proclamò guerra a Piacenza perché il territorio era parte del Ducato Visconteo di Milano ed i piacentini, con una rivolta cittadina, avevano cambiato la casacca giurando fedeltà ai Veneziani nell’agosto di quel 1447. Da questo cruciale dato si arriverà all’epilogo, con disfatta, dopo soli tre mesi: lo Sforza non scherzava ed i piacentini con quella mossa politica avevano sopravvalutato la protezione ed i benefici che avrebbero ricavato dalla lontanissima Repubblica di Venezia, sconfitta in battaglia. Un anno dopo, con accordo di pace, Venezia cedette allo stesso vasti territori compreso il cremasco.
Ma vediamo nel dettaglio come avvenne l’assedio, con battaglie ed assalti con gravi perdite umane soprattutto di piacentini e lo sfinimento della popolazione portata allo stremo dalla mancanza di viveri, dalla stagione autunnale piovosa e fredda e con i fiumi Trebbia e Po gonfi d’acque che permettevano una buona navigazione dei temuti galeoni della flottiglia navale del conte Francesco Sforza, al soldo del Duca di Milano Filippo Maria Visconti.
Ci atterremo a narrare dalle fonti storiche la parte più triste e crudele, che sembra tratta da una moderna sceneggiatura da film ma che invece è una cruda realtà avvenuta tra il 16 ed il 17 ottobre 1447 nella città di Piacenza. Certi fatti sono molto cruenti e feroci. Stupisce sentire il giorno prima il nemico dare l’annuncio del libero saccheggio, senza regole, però anche inneggiando ad una Piacenza che viene paragonata per bellezza seconda sola a Milano.
È l’alba del 16 ottobre allo squillo delle trombe inizia l’attacco su tutti i fronti con colpi delle grandi bombarde dello Sforza che senza sosta colpiscono Porta Corneliana mentre dal Po i galeoni, con le stesse, bombardano incessanti la parte nord delle mura. Uomini pronti a tutto: arcieri, archibugieri e balestrieri oltre a spade sguainate in mortali corpo a corpo contro i piacentini assediati e decine di uomini a cavallo. La battaglia continua per tutta la giornata, i piacentini vengono sopraffatti e qui comincia quello che la guerra con il “sacco” a libera depredazione comporta per i vinti.
I soldati dello Sforza si buttano sulle case dei nobili e le svuotano dei beni: mobili, vasellame, arredi e ovviamente ori ed argenti ed alla fine di oggetti rubati se ne conteranno alcuni carri oltre a tutto quello che ognuno di quei predatori personalmente aveva tenuto addosso riempendo tasche e sacche.
Le chiese della città anch’esse rapinate di candelabri, ornamenti e calici con profanazioni delle ostie sbattute a terra. Ugual sorte ai tanti conventi di monaci e suore molte delle quali vilmente stuprate. Ma le violenze si riversarono anche su donne comuni e ragazzine e le fonti non risparmiano di informare di ragazzi sodomizzati.
Le case dei nobili dopo esser state svuotate erano fatte atto di vandalismi ed in alcuni casi date alle fiamme. Alcuni sacerdoti furono messi in catena mentre altri assalitori, ormai in preda a questo delirio, aprirono tombe e profanarono i cadaveri, ovviamente di persone di rango le quali potevano esser state sepolte con qualche oggetto di metallo prezioso come anelli e collane. Un inferno di morte per Piacenza ricco solo di furore e ferocia. Intanto anche la cavalleria veneziana ad est della città era stata sbaragliata ed il mantovano Gonzaga alleato dello Sforza s’occupava di far riunire la flotta delle navi sparse sul Po per quell’attacco.
Il giorno dopo si firmò ufficialmente la resa e con questa la pace: la città era ormai deserta e per circa un anno restò in questo stato, al punto che lo Sforza nel 1448 farà un’ordinanza per obbligare i piacentini fuoriusciti a ritornare, con il perdono dei ribelli e l’esenzione completa delle tasse per ben 4 anni e questo atto fu trasmesso alla Cancelleria del Comune di Piacenza.
Una battaglia combattuta su terra e in parte sul Po e vinta dai Milanesi che dal 1450 alla morte di Filippo Maria Visconti elessero proprio Francesco Sforza come nuovo Duca e che tuttavia, leggendo dalle missive dell’Archivio di Stato di Milano con Piacenza, eserciterà il potere con buon sapere e senza eccessivi gravami, forse conscio di quello che già aveva inflitto alla città ed ai suoi abitanti.
Tra le fonti storiche coeve, raggela leggere solo qualche riga dello storico bresciano Cristoforo Da Soldo nella “Istoria Bresciana” che scrive: “furono rubate tutte quante le chiese e reliquie, croci, calici e stracciata ogni cosa. Dello svergognar delle donne sarebbe uno stupore a scriverlo; tutte le donzelle, vergini, maritate, vedove, monache, tutte furon svergognate e malmenate. Non voglio scriver altro perché la pietà e la compassione non mi lascia scrivere. Durò il saccomanno più di cinquanta giorni”.
Una lettera originale di tal Francesco Barbaro scritta dalla città il 30 novembre 1447 tra l’altro dice: “Non scrivo quanto infelicemente le cose siano accadute a Piacenza... Tieni presente che coloro che fan dipendere tutto dal saccheggio e dal capriccio, non han risparmiato né i templi, né le vergini, né i fanciulli, né alcun sesso. Chi può descrivere, soltanto a parole, la strage di quella notte?”.
Se solitamente il sabato per Piacenza è giorno di mercato, quasi una festa per l’aria genuina e frizzante che si respira, per mezzo della sua gente, tra piazza Duomo e piazza Cavalli, quel sabato 16 ottobre 1447 rimane uno dei più crudeli momenti di storia locale e rievocandolo si accende il piacere di quel sano “campanilismo” che ci vuole lavoratori orgogliosi e capaci, sebbene di poche parole.
20 marzo 2022
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FIERA DEL PO 2022
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13 marzo 2022
12 marzo 2022
I PORTI SUL PO A CALENDASCO
di Umberto Battini
Nella mappa del 1800 presa in un dettaglio potete vedere indicati tre porti sul Po in zona Calendasco ma ovviamente le mappe sono tante e antiche alcune secolari e molto dettagliate
Degna di nota fin dal medioevo è la parte d’alveo del Grande Fiume al nord ovest della città che è stata quella più sotto la lente di ingrandimento per accadimenti e anche per successivi studi storici molto precisi e interessanti. Quest’area è quella che tocca i circa 20 chilometri di sponda di Po posta nel comune di Calendasco, praticamente dallo sbocco del fiume Lambro fino allo sbocco del fiume Trebbia, dove il serpentone d’acqua forma due grandi anse.
Conoscendo bene ormai del porto antico di Soprarivo oggi conosciuto come Guado di Sigerico della Via Francigena, del quale tanti han scritto, vedremo di leggere tra le mappe e le carte degli Archivi di Stato conservate a Parma, Piacenza e Milano quali e quanti erano gli altri porticcioli nel restante tratto di alveo in questione. Con l’accordo fatto dal comune di Piacenza con i ferraresi il 5 novembre 1181 per la navigazione sul Po si era deciso che chi attraccava a Soprarivo per “fune navis” dovesse dare come gabella “una libram piperis” una libra di pepe, questo porto col tempo verrà ceduto in fitto ad un privato negli anni del 1400 per poi andare in disuso causa l’ormai decaduto passaggio sulla antica strada romana Placentia-Ticinum (Piacenza-Pavia) che puntando su Calendasco raggiungeva la città, oggi è una ambita tappa francigena.
Restano però in vita e ben attivi altri porti che vediamo segnalati su mappe e carte dei regolamenti ducali nel XVI secolo, poi dello stato Borbonico e Napoleonico, dal successivo Regno d’Italia e fino agli inizi del 1900, insomma lo Stato con l’ente del Demanio per motivi di tassazione censise e regola i porti sul Po tra essi anche questi in territorio di Calendasco.
Nel medioevo il monastero di San Sisto di Piacenza aveva diritti di attracco lungo la sponda destra che andava, per quel che concerne il Po in questione, dal Mezzano fino allo sbocco del Trebbia, mentre l’alveo poco a monte dello sbocco del Lambro che ricadeva verso il Monticelli Piacentino (oggi Pavese) risultava proprietà della Mensa vescovile di Piacenza ed anche al Veratto di Santimento era un attrezzato porto come appare in una precisa mappa del 14 giugno 1749.
Davanti al Mezzano di Calendasco era l’isola dei Germani di proprietà di San Sisto e che rendeva anch’essa un profitto in ottimo legname, questi enormi ballottini (isole nel fiume circondate dalle acque), venivano sfruttati e rivendicati apertamente, ed anche a Piacenza al Bergantino era un ottimo grande porto come indica una chiara mappa del febbraio del 1641.
Una delle mappe che ha fatto la storia del Po, per la sua precisione, rimane quella voluta dai Farnese e fatta tra il 1587 e 1588 da Paolo Bolzoni ingegnere e topografo ducale di chiara fama, conservata in Archivio di Stato di Parma, e insieme alle mappe successive dei secoli a venire si è potuto ricostruire il meandro del Grande Fiume ed i suoi spostamenti riuscendo a capire come si sono create queste due grandi anse al nord-ovest della città.
Ancora nel XVIII secolo possiamo ritrovare su tante mappe il Porto di Cotrebbia (Vecchia per intenderci) che trasversalmente andava a cadere sull’altra sponda tra Valloria ed il Berghente (oggi territorio di Guardamiglio) e tra fine ’800 e l’inizio del 1900 era dato in fitto dallo Stato ad un lodigiano. Guardando nel particolare si vede bene che il porto parte dall'abitato di Cotrebbia e trasversalmente approda davanti all’abitato di Valloria ed una strada dalla riva sabbiosa porta verso il percorso lodigiano.
Dalla parte di Cotrebbia la strada locale punta su quella che le mappe chiaramente indicano come "Strada de Calendascho", da qui si procede per la città di Piacenza e questa via sbucava dritta dritta in Via Campagna proprio lì ove sorge il santuario mariano.
In altre antiche mappe è evidenziato il percorso trasversale della chiatta tracciando alcuni trattini mentre da carte amministrative sappiamo del costo annuale dell'affitto di gestione di questo porto e di altri, assai importante per questa area soprattutto per spostare carichi di prodotti agricoli sui carri dall'una all'altra sponda del Po.
Circa l'antichità di questo porto sul fiume già nel medioevo ci sono fior fiore di ottimi studi pubblicati nei libri; di fondamentale importanza per aver rilevanti notizie sono ad esempio quelli pubblicati dal Solmi ed anche in anni recenti da storici universitari: davvero la documentazione d'Archivio citata è tanta e chiarissima al riguardo.
Altro posto di passo del Po molto antico e secolare è il Porto del Botto, che era situato tra la località con cascina agricola Bosco di Calendasco e sulla sponda opposta in territorio lombardo la località Botto. Viene chiamato Porto del Botto per Cavalli cioè qui era una chiatta per guadare il Po molto possente che permetteva di portare da una riva all'altra i carri carichi di prodotti ovviamente trainati da cavalli da tiro.
La posizione è strategica: primo perchè è vicina al borgo di Calendasco e quindi con ottime strade per quel tempo, secondo perchè qui il letto del fiume manteneva sempre un ottimo corso d'acque abbastanza fondo il che permetteva alle chiatte di attraversare anche con carichi pesanti che potevan certamente abbassare il pescaggio ma evitare il pericolo di insabbiamento.
Sempre dal 1800 rimane attivissima la Stazione di Barca per cavalli del Boscone Cusani con chiatta, indicato nelle mappe del demanio appena sopra l’abitato prima della curva di Corte Sant’Andrea in territorio lombardo, ed anche questo ha un regolamento daziario statale ben definito mentre più a monte rimane la Stazione di Barca per cavalli delle Gabbiane, dopo foce Lambro, e più giu ancora quello del Veratto di Santimento; un’area di fiume storicamente molto vivace e vissuta, in modo sintetico portata all’attenzione di chi ancora oggi sente un legame con questo lungo serpentone che si staglia nella valle padana chiamato Eridano, Pado, Po e ricco del mito di Fetonte.
Oggi dalla via Po dinanzi al palazzo del comune di Calendasco una strada rettilinea di circa un chilometro porta all’attracco del Masero, qui è ancora vivo nella memoria il fatto di quando tra fine anni ’60 ed inizi del ’70 i militari di Piacenza del Reggimento Pontieri venivano a porre un grande accampamento d’addestranento al Masero in area demaniale e montavano sul Po il possente bonte di barche; dall’alto dell’argine maestro alcuni militari di guardia non permettevano a nessuno di avvicinare quell’immenso accampamento brulicante di uomini e mezzi ma per i bambini (tra essi anch’io scrivente) questi giovani militari di leva chiudevano un occhio e sotto al loro divertito sorriso, dall’alto dell’argine, seguivamo stupitissimi tutte quelle operazioni e chissà quanto avremmo pagato per poter mettere il nostro piede su quel grande ponte poggiato sul maestoso Po.
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