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PORTI SUL PO A CALENDASCO
Conoscendo bene ormai del porto antico di Soprarivo, oggi conosciuto come Guado di Sigerico della Via Francigena, vedremo di leggere tra le mappe e le carte degli Archivi di Stato conservate a Parma, Piacenza e Milano quali e quanti erano gli altri porticcioli nel restante tratto di alveo in questione.
Con l’accordo fatto dal comune di Piacenza con i ferraresi il 5 novembre 1181 per la navigazione sul Po, si era deciso che chi attraccava a Soprarivo “fune navis” dovesse dare come gabella “una libram piperis” una libra di pepe, questo porto col tempo verrà ceduto “in fitto” ad un privato nel 1400 per poi andare in disuso, causa l’ormai decaduto passaggio sulla antica strada romana Placentia-Ticinum (Piacenza-Pavia) che, puntando su Calendasco, raggiungeva la città. Oggi è ambita tappa francigena.
Restano però in vita e ben attivi altri porti che vediamo segnalati su mappe e carte dei regolamenti ducali nel XVI secolo, poi dello stato Borbonico e Napoleonico, dal successivo Regno d’Italia e fino agli inizi del 1900. Insomma, lo Stato con l’ente del Demanio, per motivi di tassazione censisce e regola i porti sul Po anche nel territorio di Calendasco.
Nel medioevo il monastero di San Sisto di Piacenza aveva diritti di attracco lungo la sponda destra che andava, per quel che concerne il Po in questione, dal Mezzano fino allo sbocco del Trebbia, mentre l’alveo poco a monte dello sbocco del Lambro che ricadeva verso il Monticelli Piacentino (oggi Pavese) risultava proprietà della Mensa vescovile di Piacenza. Anche al Veratto di Santimento era attrezzato un porto: appare in una precisa mappa del 14 giugno 1749.
Davanti al Mezzano di Calendasco era l’isola dei Germani - di proprietà di San Sisto- e che rendeva anch’essa un profitto in ottimo legname, questi enormi ballottini (isole nel fiume circondate dalle acque), venivano sfruttati e rivendicati apertamente, ed anche a Piacenza al Bergantino era un ottimo grande porto come indica una chiara mappa del febbraio del 1641.
Una delle mappe che ha fatto la storia del Po, per la sua precisione, rimane quella voluta dai Farnese e fatta tra il 1587 e 1588 da Paolo Bolzoni ingegnere e topografo ducale di chiara fama, conservata in Archivio di Stato di Parma, e insieme alle mappe successive dei secoli a venire si è potuto ricostruire il meandro del Grande Fiume ed i suoi spostamenti riuscendo a capire come si sono create queste due grandi anse al nord-ovest della città.
Ancora nel XVIII secolo possiamo ritrovare su tante mappe il porto di Cotrebbia (Vecchia per intenderci) che trasversalmente andava a cadere sull’altra sponda tra Valoria ed il Berghente (oggi territorio di Guardamiglio per intenderci) e tra fine ’800 e l’inizio del 1900 era dato in fitto dallo Stato ad un lodigiano.
Guardando nel particolare si vede bene che il porto, parte dall'abitato di Cotrebbia, approda davanti all’abitato di Valoria ed una strada dalla riva sabbiosa porta verso il percorso lodigiano. Dalla parte di Cotrebbia la strada locale punta su quella che le mappe chiaramente indicano come "Strada de Calendascho", da qui si procede per la città di Piacenza: questa via sbucava dritta in via Campagna proprio dove sorge il santuario mariano.
In altre antiche mappe è evidenziato il percorso trasversale della chiatta tracciando alcuni trattini mentre da carte amministrative sappiamo del costo annuale dell'affitto di gestione di questo porto ed di altri, assai importante per questa area soprattutto per spostare carichi di prodotti agricoli sui carri dall'una all'altra sponda del Po.
Circa l'antichità di questo porto sul fiume già nel medioevo ci sono ottimi studi pubblicati nei libri; di fondamentale importanza per avere rilevanti notizie sono ad esempio quelli pubblicati dal Solmi ed anche in anni recenti da storici universitari: davvero la documentazione d'archivio citata è tanta e chiarissima al riguardo.
Altro posto di passo del Po molto antico e secolare è il Porto del Botto, che era situato tra la località con cascina agricola Bosco di Calendasco e, appunto, la località di “Botto” sulla sponda opposta in territorio lombardo. Viene chiamato Porto del Botto per Cavalli: era una chiatta per guadare il Po che permetteva di portare da una riva all'altra i carri carichi di prodotti ovviamente trainati da cavalli da tiro.
La posizione è strategica: primo perché è vicina al borgo di Calendasco e quindi con ottime strade per quel tempo, poi perché qui il letto del fiume manteneva sempre un ottimo corso d'acque abbastanza fondo, il che permetteva alle chiatte di attraversare anche con carichi pesanti che potevano certamente abbassare il pescaggio, ma evitare il pericolo di insabbiamento.
Sempre dal 1800 rimane attivissima la Stazione di Barca per cavalli del Boscone Cusani con chiatta, indicato nelle mappe del demanio appena sopra l’abitato prima della curva di Corte Sant’Andrea in territorio lombardo. Anche questo ha un regolamento daziario statale ben definito mentre più a monte rimane la Stazione di Barca per cavalli delle Gabbiane, dopo foce Lambro, e più giù ancora quello del Veratto di Santimento. Un’area di fiume storicamente molto vivace e vissuta, portata all’attenzione da chi ancora oggi sente un legame con questo lungo serpentone che si staglia nella valle padana chiamato Eridano, Pado, Po e ricco del mito di Fetonte.
Oggi dalla via Po dinanzi al palazzo del comune di Calendasco una strada rettilinea di circa un chilometro porta all’attracco del Masero. Qui è ancora vivo nella memoria quando a fine anni ’60 ed inizi del ’70 i militari del II° Reggimento Pontieri hanno realizzato un grande accampamento d’addestramento al Masero, in area demaniale, per montare sul Po un possente ponte di barche.
Dall’alto dell’argine maestro alcuni militari di guardia non permettevano a nessuno di avvicinare quell’immenso accampamento brulicante di uomini e mezzi. Per i bambini (c’ero anch’io) questi giovani militari di leva chiudevano un occhio e sotto al loro divertito sorriso, dall’alto dell’argine, seguivamo stupitissimi tutte quelle operazioni. Chissà quanto avremmo pagato per poter mettere il nostro piede su quel grande ponte poggiato sul maestoso Po.
Umberto Battini
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TRA DANNAZIONE E SANTITA'
Se c’è un personaggio medievale piacentino che potrebbe essere “eletto” quale simbolo “Francigeno d’eccellenza”, questo è fuor di dubbio Corrado Confalonieri. Il santo meriterebbe d’essere proprio il logo rappresentativo della via Francigena locale, di tutto il territorio di Piacenza solcato dalla strada medievale, un perfetto Pellegrino del Po.
Un piacentino importante, come lo è stata la sua famiglia: dal poderoso castello di Calendasco sul fiume Po dove nacque nel 1290, dopo gli eventi della sua dannazione delle memorie causa l’incendio della caccia, stupidamente appiccato nel 1315, si ritrova a doversi fare “penitente francescano”, nell’ospitale del “gorgolare”.
È storicamente un pellegrino d’eccellenza, difatti verso il 1323 partito dall’ospitale di Calendasco, calpestò tutta la Via Francigena, fino a Roma e poi ancora nel tratto che porta a Brindisi, da lì imbarcato per Gerusalemme.
Arriva a Noto in Sicilia nel 1343 dopo una sosta a Malta, dove venne cacciato miseramente, e sbarcato a Messina cammina fino alla “Ingegnosa Noto” dove, leggiamo dalla sua agiografia più antica (datata alla fine del 1300) si dice che “a Noto erano le migliori genti” e così è la solida generosa accoglienza riservata al frate Corrado dal quel primo giorno tra i netini.
Ma sul groppone del santo eremita piacentino c’è anche tutta la faccenda della sua santificazione: appena morto, come si usava in quel medievo, il vescovo locale poteva “far santo” un personaggio locale acclamato a furore di popolo. Questo fu il suo caso.
Il terremoto di Sicilia del 1693 ha spazzato via buona parte dei palazzi storici, degli archivi dei conventi, chiese e notai ma per fortuna rimane intatta la pratica antica del 1485: si dà il via da Noto ad un “processo per canonizzazione” con testimoni di eventi miracolosi relativi a San Corrado.
Altri membri della stessa casata “slegati” da questo evento rimasero tranquilli a vivere nel Piacentino ed anzi, quando tutto tornò nel silenzio cercarono d’appropriarsi addirittura della nascita del santo nel loro ramo di discendenza, per darsi vanto.
Immaginiamo quando a Roma arrivò sul tavolo del papa la “pratica” San Corrado ma con cognome Confalonieri! Tutto fermo, a Piacenza e soprattutto a Calendasco, luogo d’abitazione di uno dei carnefici di suo figlio: il culto di San Corrado era stato approvato per essere diffuso solo in tutta la Sicilia e così doveva restare cioè un culto “rinchiuso” sull’isola.
Le cose tornano a posto il 9 agosto del 1617: è il vescovo di Piacenza mons. Claudio Rangoni che dà una scossa forte e decisa al recupero del culto, infatti “approva, decreta e firma” ciò che è scritto nero su bianco nel notarile di curia “Legato Sancti Conradi”.
Traducendo dal latino il documento, che si conserva in una imbreviatura originale in Archivio di Stato a Piacenza, così si legge: ”...i Confalonieri furono per diversi secoli feudatari abitanti di Calendasco... circa S. Corrado come è appurato dalle cose fatte sapere della sua vita pubblica, certamente la maggiore devozione è da promuovere e deve essere stimolata nella predetta Chiesa di Calendasco, il medesimo luogo dal quale questo Santo, come appurato, ha tratto la sua origine terrena”.
Chiarissimo e inoppugnabile, un documento di curia a Piacenza, per mano notarile e qualche anno dopo, anche papa Urbano VIII darà un bel colpo alla risoluzione “della santità” circa San Corrado.
Infatti in una bolla da lui emessa e firmata il 12 settembre del 1625, concede ai francescani (nel cui santorale ricade il santo) di poter fare culto “in tutto il mondo a San Corrado” (lo chiama proprio così). Inoltre il papa precisa che "qualsiasi scomunica" ed altra pena relativa al fatto che si venerava Corrado come santo, quando invece era solo beato, è completamente tolta, anche quelle dei suoi predecessori, senza possibilità di ricorso e quindi concede di tornare a venerarlo quale Santo, come infatti si faceva a Noto da secoli da quel 19 febbraio 1351.
Su questo uomo medievale della terra piacentina, che ha unito Calendasco con la città di Noto, dove un santuario ne racchiude la grotta della sua vita eremitica fino alla morte, molto ci sarebbe da scrivere. La cosa notevole è che c’è tanta documentazione, conosciuta ed inedita, e quando nel 1610 i Giurati di Noto scrissero ai reggenti di Piacenza, specificarono che sapevano bene che il santo era proprietario feudatario del castello di Calendasco, cosa non di poco conto.
Nuovo e ricco materiale d’archivio è emerso da pochi anni, già sotto la lente di studio e di confronto, per arrivare a mettere ancor più luce sul santo Corrado Confalonieri da Calendasco, penitente, pellegrino e poi eremita.